Dialogo fra Agnes Heller e Zygmunt Bauman

On 08/11/2014 by dellabellezza

Sarà la bellezza a salvare il mondo? Un dialogo fra Agnes Heller e Zygmunt Bauman  (tratto da ilBo il giornale dell’Università di Padova)

 

Venere di Botticelli

Venere di Botticelli

Il tema è la bellezza, ma per questa volta Sorrentino non c’entra nulla: la domanda alla quale sono stati chiamati a rispondere in un recente incontro i relatori viene dall’Idiota  di Dostoevskij. E neppure ha a che fare con Roma, o con le più note città d’arte: a ospitare il dialogo è la Libera Università di Bolzano, grazie ad una collaborazione con il Centro per la pace cittadino, e il tema è affidato tutto alle parole dei relatori, senza riferimenti alla cornice esterna. Un dialogo, però, e relatori che raramente è dato vedere assieme, anche in sedi molto più “centrali”.

A confrontarsi con il tema “Quale bellezza salverà il mondo?” con gli strumenti delle rispettive discipline, filosofia e sociologia, c’erano infatti due pensatori come Agnes Heller e Zygmunt Bauman, portati nella giovane (è del 1997) università trilingue dall’impegno degli organizzatori e dalla sfida di declinare assieme la bellezza, tema classico quanto pochi altri, e la possibilità di affrontare la profonda crisi – sociale, economica, ambientale – che sentiamo incombere sul nostro tempo, argomento questo di assoluta attualità.

Prima a prendere la parola è Agnes Heller. Allieva di Gyorgy Lukàcs, esponente di spicco della “Scuola di Budapest” soffocata dal regime comunista negli anni Settanta e poi erede, alla New School di New York, della cattedra che era stata di Hannah Arendt, la pensatrice dei bisogni radicali e della rivoluzione della vita quotidiana parte dalla messa in discussione dei termini stessi della domanda. E lo fa in inglese, a braccio, scegliendo la terza fra le lingue d’insegnamento della Lub, nonostante l’intervento già scritto in tedesco: per la necessità di “una lingua in comune” con Bauman e assieme di un “ponte” con il mondo in una terra che, come molte altre in Europa, troppo spesso nella sua storia è stata divisa dall’uso di una delle sue due lingue piuttosto che dell’altra.

L’intervento inizia chiedendosi cosa è la bellezza, e cosa fa la sua esperienza su di noi. In un percorso che va dal come definirne il concetto alla domanda su cosa significhi dire che ci può salvare, i primi passaggi sono sulla storia dell’estetica, fin dal Fedro di Platone; sull’associazione di bello e bene, costante fino all’età moderna, che scandisce in teologia e nell’arte sacra le associazioni di armonia e redenzione, deformità e condanna, e sulla successiva caduta di quell’idea “oggettiva” del bello come partecipazione a un’ideale puro. Cambia l’idea, nel corso del tempo, – ricorda Heller – e cambia anche l’oggetto: la bellezza della natura, che per noi ha larga parte nel concetto, era sostanzialmente indifferente agli antichi. La svolta con Kant e Hegel, passando per Hume e poi Marx, Kierkegaard, Nietzsche: la bellezza è l’esperienza del bello, il giudizio che noi ne diamo. Infine, Adorno. Attorno al cui pensiero sono costruite le conclusioni, per alcuni versi spiazzanti, della filosofa ungherese.

“La bellezza non è la felicità, è una promessa di felicità” Una promessa: con passaggi asciutti ed essenziali, Agnes Heller disegna le implicazioni della definizione di Adorno. Se da un lato l’immagine della bellezza che guizza in un istante per noi moderni è esperienza di felicità che proprio nella sua promessa percepiamo più viva che mai, cos’è allora la salvezza, caduta l’idea religiosa che sia redenzione dalla morte, dal dolore, dal peccato? È l’istante perduto e ritrovato, eterno nella sua fuggevolezza, in cui la bellezza del mondo si lascia esperire attraverso un tramonto, un libro, un volto, un’opera d’arte; e la felicità che lascia scorgere è un sentimento universale, che ci permette di rinnovare il legame col senso dell’esistenza. Ci può salvare, la bellezza? “Sì, ci può salvare: dalla disperazione, per il nostro destino e per ilmondo, la nostra immagine del male, come nota Heller”.

Replica Zygmunt Bauman mettendo a sua volta in discussione la domanda iniziale e i concetti che la definiscono con gli strumenti della disciplina sua propria. Che caratteristiche dovrà avere, l’esperienza della bellezza, perché sia suscettibile di permettere alle persone di rendere migliore il mondo in cui vivono? Comincia delimitando i concetti, scorporandoli, analizzandone il significato. Il mondo deve essere “salvato” in un senso che possiamo afferrare: e Bauman lo riduce a senso morale. Più spazio per gesti buoni, per la condivisione, per la giustizia; meno per rapporti puramente strumentali, cliente-venditore. Più essere umano e meno mercato, meno riduzione dell’uomo a polo di un processo puramente commerciale.

Una vita più piena, più degna e con più giustizia: come può partecipare la bellezza a questo processo? Anche questo concetto ha bisogno di essere ridotto, per poterne definire l’uso. E anche per Bauman si torna a Kant: non per la teoria del giudizio, in questo caso, ma per la riflessione sulla differenza fra naturale e artificiale. La bellezza che ci interessa sarà quella artificiale: quella che possiamo creare, perché è di un processo intenzionale che ci vogliamo occupare. Seguendo questo filo, attraverso le opere di due artisti contemporanei, Michel Houellebecq e Michael Haneke, e il loro confronto con le distopie di Zamjatin, Huxley, Orwell e di altri “classici” che ci hanno permesso di distinguere il male e il bene nella trama del Novecento, Bauman definisce il compito della bellezza nell’arte come la capacità di attivare, rendendo percepibile questa distinzione, una scelta morale. Qualcosa di più profondo e permanente di una semplice sensazione: qualcosa in grado di orientare le nostre azioni e quindi fare di noi un fattore di cambiamento.

Come deve essere, allora, la bellezza? La risposta dello studioso della società liquida, il cui nome e i cui libri hanno chiamato una parte considerevole del pubblico che gremisce l’aula magna, è paradossale e spiazzante, ma assolutamente conseguente. Quello che ci occorre se vogliamo migliorare le cose, ci dice l’esperienza del secolo appena trascorso, è la capacità di interrompere le routines, di uscire dalla nostra chiusura e dai nostri meccanismi di rassicurazione. L’arte moderna è una forma più intensa della capacità di andare contro le regole (Foucault). Ma perché questo sia possibile e abbia efficacia, sarà proprio il dissonante, il disturbante, la bruttezza e l’ingiustizia appena sotto la superfice della nostra vita e delle nostre abitudini quello che l’arte dovrà far vedere. Come in Houellebecq, come in Hanneke. Occorrerà esporre le persone a ciò che non è bello, se vogliamo che la bellezza faccia il lavoro che le abbiamo affidato, migliorare il mondo e noi stessi.

E dunque – questa la conclusione – è attraverso un’antiestetica che la bellezza si manifesterà, mettendoci di fronte alle forme del brutto, dell’assenza di piacere, della disarmonia per innescare quell’irrequietezza e quella reazione che sole possono portarci a salvare il nostro mondo. Come Agnes Heller, anche Zygmunt Bauman ci lascia con un paradosso conseguente, che chiede riflessione e discussione. All’uscita dall’incontro, la gran parte dei discorsi proseguivano i ragionamenti fatti, e forse nulla come questo prova la riuscita di un dialogo come questo, affatto scontata. Una bella lezione per tutti coloro che pensano che livello della riflessione e numero degli interessati siano, necessariamente, in proporzione inversa.

Michele Ravagnolo

http://www.unipd.it/ilbo/content/sara-la-bellezza-salvare-il-mondo-un-dialogo-fra-agnes-heller-e-zygmunt-bauman

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